venerdì 23 marzo 2012

L'urto Elastico o Anelastico

Per poter trattare gli urti tra due corpi dal punto di vista meccanico in un sistema isolato (che come vedremo possono essere di tipo elastico o anelastico), è necessario introdurre il principio di conservazione della quantità di moto (vedi Wikipedia).

È nota la relazione di Newton che lega la forza F che agisce su un corpo di massa m e la variazione della quantità di moto p=mv che subisce il corpo:
F=dp/dt.
Sappiamo anche che questa relazione è generalizzabile ad un sistema di N punti materiali, dove F rappresenta la risultante delle forze interne Fint più quella delle forze esterne Fext che agiscono sui vari corpi e P è la quantità di moto complessiva (cioè la somma delle singole quantità di moto):
F=dP/dt=Fint+Fext.
Nota: per chiarimenti su questa relazione vedi anche il post "L'equazione del Razzo!".

Ora per un sistema isolato risulta per definizione Fext=0 ma anche per la risultante delle forze interne si ha Fint=0; infatti (come abbiamo visto nel post "Il Principio di Azione<=>Reazione!") un corpo che esercita una forza F12 su un altro corpo, è soggetto a sua volta ad una forza F21 uguale in modulo e direzione ma di verso opposto*. Segue perciò che:
dP/dt=0
cioè la quantità di moto in un sistema isolato è costante nel tempo.

Vediamo quindi le due diverse definizioni di urto in un sistema isolato** (secondo Wikipedia):
-> Urto elastico: "In meccanica classica un urto elastico è un urto durante il quale si conserva l'energia meccanica totale del sistema (cioè l'energia cinetica+potenziale), ed in particolare l'energia cinetica" (poiché di solito l'energia potenziale, come ad esempio quella gravitazionale, è trascurabile);
-> Urto anelastico: "L'urto anelastico è l'urto in cui l'energia meccanica totale non si conserva. Nel caso poi sia anelastico totale, i corpi, dopo la collisione, si uniscono e possono essere considerati come un unico corpo" (cioè l'energia meccanica si trasforma, almeno in parte, mentre quella totale si conserva - vedi l'esempio sotto).

Perciò in generale, per risolvere il problema cinematico di corpi che si urtano in un sistema isolato, dovremo fare le seguenti considerazioni:
-> Urto elastico: la quantità di moto si conserva (come abbiamo mostrato sopra per un sistema isolato) e anche l'energia cinetica, per definizione (trascurando quella potenziale).
Tuttavia le due leggi di conservazione dell'energia e della quantità di moto, utili per determinare il moto dopo l'urto, sono sufficienti solo in determinati casi***; dobbiamo spesso conoscere altri dati dell'esperimento (come per esempio l'angolo di deviazione dei corpi dopo l'urto) oppure sfruttare la simmetria del sistema per risolvere il problema.
-> Urto anelastico: anche in questo caso la quantità di moto si conserva ma non l'energia cinetica (trascuriamo quella potenziale), per definizione.
Sappiamo che l'energia totale si conserva, tuttavia è spesso difficile valutare quali sono e come si trasformano esattamente le energie in gioco; ma se l'urto è completamente anelastico (cioè se i corpi si uniscono dopo l'urto), conoscendo le condizioni iniziali e ricordando che la velocità finale è l'unica incognita (in modulo e direzione), è possibile determinare il moto del sistema dopo l'urto.

Come esempio di urto completamente anelastico, consideriamo due corpi di massa m1 e m2 che si scontrano lungo lo stesso asse (con velocità v1 e -v2 rispettivamente); la quantità di moto come abbiamo detto si conserva:
m1v1-m2v2=(m1+m2)vcm
(dove vcm è la velocità del centro di massa dei due corpi uniti dopo l'urto); mentre la perdita di energia cinetica è data da
∆Ec=(1/2)(m1+m2)v2cm-(1/2)(m1v21+m2v22)
da cui si ottiene (ricavando il valore di vcm dalla precedente equazione):
∆Ec=-(1/2)µ(v1+v2)2
dove µ=m1m2/(m1+m2) è la cosiddetta massa ridotta del sistema.

Tale perdita di energia viene impiegata dal sistema per deformare e saldare insieme i due corpi al momento dell'urto (energia potenziale elastica) con conseguente sviluppo di calore (energia termica); ovviamente l'energia totale, anche se si trasforma, complessivamente si conserva.

(*) Nel caso relativistico, dove l'azione a distanza non può essere considerata istantanea, il principio di azione e reazione non è più valido; tuttavia la conservazione della quantità di moto vige ancora, a patto di tenere conto della quantità di moto associata al campo che trasporta l’interazione.
(**) Consideriamo qui solo il caso classico; nel caso relativistico (trascurando l'interazione tra i corpi e quindi la quantità di moto associata al campo) la conservazione della quantità di moto è ancora valida se utilizziamo la massa relativistica: p=mv dove m=m0/(1-v2/c2)1/2; quindi anche per la conservazione dell'energia dobbiamo usare la forma relativistica: E=mc2 (vedi Wikipedia).
(A titolo di esempio si veda l'urto elastico relativistico dell'effetto Compton).
(***) È ovvio che il caso monodimensionale è il più facile da trattare; in due o tre dimensioni aumenta il numero delle incognite (poiché aumentano i gradi di libertà) e quindi le equazioni derivate dalla conservazione della quantità di moto e dell'energia sono sufficienti solo in casi particolari.

giovedì 15 marzo 2012

Un effetto Foto-elettrico!

Descriveremo in questo post l'effetto Fotoelettrico che, come è noto, "è il fenomeno fisico caratterizzato dall'emissione di elettroni da una superficie, solitamente metallica, quando questa viene colpita da una radiazione elettromagnetica avente una certa frequenza"* (vedi Wikipedia).

Mostriamo subito l'equazione che descrive questo fenomeno fisico, derivata nel 1905, e che valse il premio Nobel ad Albert Einstein nel 1921:
(1/2)mv2=h/T-W.
L'equazione è piuttosto semplice, in essa sono indicati i seguenti termini:
-> (1/2)mv2 è l'energia cinetica di un elettrone di massa m (posto sulla superficie metallica) che fuoriesce dalla piastra a velocità v a causa della radiazione incidente;
-> h/T è l'energia di un fotone (cioè un quanto della radiazione elettromagnetica di frequenza 1/T) che collide su quel dato elettrone (trasferendogli per ipotesi tutta la sua energia)**;
-> W è il lavoro che si deve fare sull'elettrone per farlo uscire dalla piastra di metallo, per vincere cioè l'energia che lo tiene legato al metallo.

L'interpretazione di questa equazione, e quindi del fenomeno fisico che descrive, è la seguente: l'emissione di elettroni, in particolare la loro energia cinetica, dipende solo dalla frequenza 1/T della radiazione elettromagnetica incidente, una volta superata la soglia di emissione W.
Inoltre l'intensità dell'onda incidente*** (cioè l'energia che attraversa la superficie elementare nell'unità di tempo) è proporzionale al numero di fotoni e quindi al numero di elettroni emessi dalla piastra.

Questa in sintesi la spiegazione data da Einstein; ma per apprezzare meglio quale sia stata la sua straordinaria ipotesi (cioè il quanto di luce) ricordiamo cosa invece prevedeva la teoria classica:
-> poiché l'intensità di un'onda elettromagnetica dipende dal campo elettrico E ed essendo la forza F applicata all'elettrone q pari a F=qE, se aumenta l'intensità, deve aumentare anche l'energia cinetica degli elettroni: tuttavia l'effetto fotoelettrico, come abbiamo visto sopra, dipende solo dalla frequenza dell'onda elettromagnetica;
-> il fenomeno dovrebbe verificarsi per qualsiasi frequenza della radiazione, a patto che l'intensità di energia dell'onda superi la soglia minima di emissione W: in realtà l'esperimento mostra che è la frequenza 1/T dell'onda che deve superare la soglia minima affinché risulti h/T>W;
-> l'effetto fotoelettrico dovrebbe aver luogo anche a basse intensità, purché si dia abbastanza tempo agli elettroni di accumulare energia (essendo δW=Fds) in modo che possano liberarsi dalla superficie del metallo; tuttavia nessun ritardo di emissione è mai stato riscontrato: l'energia elettromagnetica non è distribuita uniformemente sul fronte d'onda ma è concentrata nei quanti di luce e si trasmette immediatamente.

Il significato fisico dell'effetto fotoelettrico è stato ben chiarito da Einstein, che nel suo articolo del 1905 con lucida comprensione del fenomeno scrisse:
"Quando un raggio di luce si espande partendo da un punto, l'energia non si distribuisce su volumi sempre più grandi, bensì rimane costituita da un numero finito di quanti di energia localizzati nello spazio, che si muovono senza suddividersi e che non possono essere assorbiti od emessi parzialmente".
Nota: la formula di Planck E=h/T si riferiva all'emissione o assorbimento delle pareti del corpo nero senza però postulare i quanti di luce.

Ma allora ciò significa che il modello ondulatorio della luce non è più valido?
Einstein così commenta nel suo articolo:
"La teoria ondulatoria della luce, che fa uso di funzioni spaziali continue, si è verificata ottima per quel che riguarda i fenomeni puramente ottici e sembra veramente insostituibile in questo campo. Tuttavia, bisogna tenere presente che le osservazioni ottiche si riferiscono a valori medi nel tempo e non a valori momentanei".

In effetti oggi sappiamo che l'intensità di un'onda e.m. è proporzionale al numero di fotoni che trasporta e che attraversano una superficie elementare nell'unità di tempo; in particolare, la probabilità di trovare un fotone (in un punto qualsiasi dello spazio) è proporzionale al quadrato dell'ampiezza del campo elettrico in quel determinato punto.
Nota: il concetto di probabilità quantistica è meglio descritto nel post "La Funzione d'Onda (quantistica)".

(*) Gli elettroni emessi dalla superficie metallica (catodo) vengono raccolti da una seconda superfice (anodo) e quindi, grazie alla differenza di potenziale che esiste tra le due piastre, si genera una corrente che permette di misurare il comportamento degli elettroni.
(**) In realtà, secondo l'effetto Compton (vedi il post "Effetto Compton: onda o particella?"), non è possibile che tutta l'energia del fotone si trasferisca ad un elettrone libero (per la conservazione della quantità di moto e dell'energia): il fotone nell'urto (per ipotesi elastico) viene deflesso, variando la sua energia, ma non viene mai assorbito completamente.
(***) L'intensità di un'onda elettromagnetica è definita classicamente dal vettore di Poynting S; ad esempio nel caso di una onda piana il suo modulo è proporzionale al quadrato del campo elettrico: S=E2/Z (dove Z=(µ/ε)1/2 è l'impedenza caratteristica del materiale entro cui si propaga l'onda).

mercoledì 7 marzo 2012

Il Principio di Azione<=>Reazione!

"Citando dal libro La fisica di Berkeley, le 3 leggi di Newton sono così formulate:
  1. Prima legge di Newton. Un corpo non soggetto a forze esterne, o tale che la risultante delle forze esterne agenti su di esso è pari a zero, permane nello stato di quiete o di moto rettilineo uniforme (accelerazione nulla) cioè:
    a=0 quando F=0.
  2. Seconda legge di Newton. La risultante delle forze applicate su un corpo è uguale al prodotto della massa del corpo per l'accelerazione:
    F=ma.
  3. Terza legge di Newton. Quando due corpi interagiscono, la forza F12 che il primo corpo (1) esercita sul secondo (2) è uguale e opposta alla forza F21 che il secondo (2) esercita sul primo (1):
    F12=-F21".
    (Per tutti i dettagli vedi Wikipedia)
Si osservi innanzitutto che questi tre principi dinamici sono veri solo rispetto ad un sistema inerziale privo di accelerazioni (vedi il post "Cos'è un Sistema di Riferimento Inerziale?"); per i sistemi non inerziali è invece necessario introdurre delle forze apparenti, almeno se vogliamo mantenere valida la prima legge di inerzia anche in questi riferimenti: in effetti tali forze sono dovute al moto accelerato dell'osservatore ma non esistono realmente (vedi il post "Una forza del tutto... apparente!").
Nota: come è noto queste leggi fisiche, essendo non relativistiche, sono valide per velocità molto minori di quelle della luce.
    In particolare vogliamo ora soffermarci sulla terza Legge di Newton che, è bene sottolinearlo, non è derivabile dalle altre due leggi ed è ovviamente vera anche in presenza di forze esterne (per il principio di sovrapposizione delle forze).

    Si osservi che solo l'esperienza può mostrare che le forze si presentano sempre in coppia e che l'eventuale esistenza di una singola forza che agisce tra due corpi è del tutto impossibile: infatti tutte le volte che un corpo esercita una forza su un altro corpo, quest'ultimo a sua volta agisce sul primo (in modo praticamente immediato)*; questa coppia di forze è sempre uguale in modulo, con la stessa direzione ma di verso opposto:
    F12=-F21.

    Come notevole esempio rammentiamo uno dei primi progetti di elicottero, meglio conosciuto come la vite aerea proposta nel 1480 circa da Leonardo da Vinci (vedi Wikipedia):

    File:Szkic śmigłowca.jpg

    Proprio a causa del principio di azione e reazione questo aeromobile non avrebbe mai potuto decollare: infatti la rotazione della vite aerea, che sfrutta correttamente i principi dell'aerodinamica, presenta il problema della contro-rotazione della base, in cui è inserita l'asse dell'elica e sulla quale si deve far forza per farla girare: ad esempio, se esercitassimo la forza delle braccia sull'asse dell'elica e quella delle gambe sulla base, quest'ultima si metterebbe a ruotare per reazione appena si solleva da terra.
    Nota: negli elicotteri moderni questo problema è stato risolto inserendo un'elica sulla coda in modo da bilanciare la contro-rotazione causata dal rotore principale.

    È però fondamentale osservare che la coppia di forze di azione e reazione, non agisce mai sullo stesso corpo, per definizione.
    Nel caso ad esempio di un libro appoggiato sopra ad un tavolo le due forze:
    -> Fg: la forza di gravità della Terra che agisce sul libro;
    -> Fp: la forza di contatto del piano del tavolo che agisce sul libro (impedendogli di cadere);
    non rappresentano una coppia di forze di azione e reazione (nonostante risulti Fg=-Fp) poiché entrambe agiscono sullo stesso oggetto: il libro.
    In realtà le coppie di forze che soddisfano la condizione F12=-F21 sono in questo caso due:
    -> Forza gravitazionale della Terra che agisce sul libro <=> Forza gravitazionale del libro che agisce sulla Terra;
    -> Forza di contatto del libro che agisce sul piano <=> Forza di contatto del piano che agisce sul libro.

    Ma ora chiediamoci: cosa potrebbe accadere ad un sistema meccanico isolato, ad esempio composto da sole due masse, se la terza legge non fosse valida?
    In questo caso l'azione F12 (del primo corpo che agisce sul secondo) non sarebbe uguale ed opposta alla sua reazione F21 e quindi la risultante F=F12+F21 (che agirebbe sul centro di massa del sistema)** sarebbe diversa da zero; ciò significherebbe che il sistema, in assenza di forze esterne, dovrebbe accelerare continuamente (essendo per la seconda legge di Newton a=F/m) senza alcuna spesa di energia!

    Risulta perciò evidente che il significato fisico della terza legge di Newton è strettamente legato al principio di conservazione dell'energia.
    Si può infatti dimostrare che il teorema della conservazione della quantità di moto P del centro di massa del sistema (e quindi dell'energia cinetica, essendo E=P2/2m) discende direttamente dal principio di azione e reazione (vedi il post "L'equazione del Razzo!").
    Tuttavia non è vero il contrario: la conservazione della quantità di moto non implica necessariamente questo pincipio di azione e reazione (poiché occorre anche la conservazione del momento della quantità di moto)***.

    (*) Si osservi che la legge di azione e reazione implica una azione a distanza istantanea; perciò nel contesto relativistico, dove la velocità della luce pone dei limiti assoluti, questo principio non è valido. Considereremo quindi il caso classico dove i tempi di trasmissione dell'interazione sono trascurabili (vedi anche le note del post "L'urto Elastico o Anelastico").
    (**) Per un sistema di N particelle definiamo la quantità di moto totale come P=m1v1+m2v2+...+mNvN=Mvcm dove M è la massa totale e dove vcm=drcm/dt è la velocità del centro di massa definito come rcm=(m1r1+m2r2+...+mNrN)/M.
    Perciò l'accelerazione del centro di massa acm=dvcm/dt è dovuta alla risultante delle forze esterne che agisce sul centro di massa (quelle interne si annullano a coppie):
    Fext=Macm=m1dv1/dt+m2dv2/dt+...+mNdvN/dt=F1+F2+...+FN.
    (***) Se consideriamo ad esempio le forze F12 e F21 che agiscono tra due corpi, dalla conservazione della quantità di moto (Fint=dP/dt=0) si ottiene la relazione F12=-F21 ma per garantire che le forze siano sulla stessa retta di azione è necessaria la conservazione del momento angolare (vedi il post "Una coppia di Forze").